lunedì 17 ottobre 2011

Crisi, finanza e indignazione globale: spunti da un confronto con Alfonso Gianni (economista di Sel)

di Paolo Mocci

Indignatevi!”. Fatelo, ma siate consapevoli che “Indignarsi non basta”: occorre una visione del mondo altra. Una nuova consapevolezza che sappia rendersi dirompente e ponga le basi di un nuovo impegno politico: creativo, analitico, votato alla condivisione e alla solidarietà, incline all'azione. “Ribelliamoci”, dunque, ma con nell'animo la volontà di costruire un progetto ampio e plurale, che abbia in sé – nelle sue fondamenta, nelle braccia e nelle menti di chi ne è parte – le categorie e gli strumenti per voltare pagina.
Tre libri, tre accorati appelli che altrettanti “grandi vecchi” della Storia e della Sinistra italiana e internazionale (l'ex partigiano francese Stephàne Hessel, 93 anni; il novantaseienne Pietro Ingrao, anch'egli ex partigiano e leader storico dell' “ala sinistra” del Pci; Luciana Castellina, classe 1929, esponente di primo piano della Sinistra italiana ed europea) hanno sentito l'urgenza di rivolgere alle nuove generazioni, affinché riconquistino il proprio tempo, esattamente come anni addietro loro stessi scelsero di fare.
Il tempo presente, violentato da una politica prostrata al capitale e snaturata dalla colonizzazione della criminalità (organizzata e non); il tempo futuro, prima ipotecato e poi espressamente negato dai fautori di una crisi economica devastante, a favore dei quali gli Stati hanno abdicato perché trovassero soluzioni che – ormai è un dato – ricalcano in tutto e per tutto le stesse vie per cui la crisi si è prodotta.
Alfonso Gianni - economista, dirigente nazionale di Sinistra Ecologia e Libertà, già sottosegretario all'Economia - non è più giovanissimo e non è ancora vecchio. Ha abbastanza esperienza alle spalle per valutare la gravità della situazione anche in base all'urgenza con cui «le “vecchie guardie” si sono sentite in dovere di tornare in campo». E tutta la preparazione necessaria per spiegare, alla vigilia della grande mobilitazione globale degli “Indignados”, le ragioni per cui oggi, anche nei Paesi occidentali, decine di milioni di persone non possono permettersi una casa, una famiglia, un'automobile, un'istruzione dignitosa, cure sanitarie adeguate. E per cui domani, quando non saranno più in condizioni di lavorare, resteranno abbandonate a sé stesse, se nulla comincia – e da subito - a cambiare.
A Iglesias (nel cuore – un caso? - del territorio più povero d'Italia) Gianni ripercorre 30 anni di neoliberismo, e dai primi esperimenti di erosione massiccia del Welfare state targati Reagan-Tatcher al disastro odierno, il passo sembra addirittura breve. Sicuramente logico e consequenziale.
Malgrado nei tre decenni successivi al secondo dopoguerra la spesa pubblica per Istruzione, Sanità, Previdenza sociale abbia costituito una solida leva per lo sviluppo economico dei Paesi occidentali, dalla fine degli anni '70 in poi ha preso piede la convinzione che una drastica riduzione della Spesa sociale (poco importava se a scapito dei diritti sottesi, conquistati in decenni di lotte politiche e sindacali) sarebbe stata la miglior ricetta per imprimere nuovi stimoli di crescita all'economia degli Stati. Specie – suggerivano i Brunetta, Tremonti, Sacconi, Romani del tempo – se accompagnata dalla privatizzazione dei settori cardine del Welfare, dalla riduzione degli interventi statali in economia, da quella delle retribuzioni dei lavoratori e da una diminuzione delle tasse sui patrimoni. Più soldi nelle tasche dei ricchi – era la convinzione dei maître à penser neoliberisti – più investimenti, più produzione, ecc.
Peccato che le suddette misure abbiano invece favorito l'ingresso di enormi capitali nella speculazione finanziaria, dove il rischio - quando basta un tavolo da sei o otto per riunire l'80% del capitale in circolazione e accordarsi di conseguenza sul controllo dei mercati – era ed è assai più contenuto che in qualsiasi altra intrapresa economica.
Conseguenze naturali: i grandi capitali arrivano all'ipertrofìa, il valore dell'economia fittizia generata dalla speculazione raggiunge e supera quello dell'economia reale, la disoccupazione cresce esponenzialmente e chi lavora lo fa con un regime di tutele e retribuzioni ridotto all'osso, potendosi al massimo permettere di contrarre debiti per acquistare casa, automobile, ecc.
Ma questo era già evidente negli anni '90. Perché allora si è arrivati, senza soluzione di continuità, all'esasperazione di questa dinamica, addirittura accelerata dopo i primi anni 2000 (la famosa bolla della c.d. New economy, la crisi argentina), fino allo scempio di oggi?
Le risposte sono diverse, ma, anche per non dilungarci in tecnicismi, appare evidente che al crescere esponenziale dei grandi capitali, è cresciuta in eguale misura la loro influenza sull'agenda economica dei governi, al punto, talvolta, da arrivare a impossessarsene.
E tutto vogliono i grandi capitali dai governi fuorché essere tassati (meno che mai quando speculano in borsa), o censurati quando si sostituiscono al legislatore nel decidere su diritti e retribuzioni dei dipendenti delle loro società, o non trovare copertura di denari pubblici quando inciampano in operazioni fallimentari, perché o se ne accolla l'onere lo Stato, o lo scaricano direttamente sui lavoratori delle loro controllate.
Così ricchezze immense si sono accresciute con la speculazione e il drenaggio sistematico di risorse dei cittadini, questi ultimi si sono trovati a vivere in condizioni sempre più critiche (disoccupazione, precariato, inflazione e salari fermi) e hanno comprensibilmente ridotto i consumi. Di qui il problema della sovrapproduzione, il tentativo di rilancio dei consumi attraverso la forzatura dei crediti da parte delle banche, che vedono bene di stipulare assicurazioni su prestiti e mutui concessi, sempre più a rischio.
Ciò ha portato a un'abnorme proliferazione di titoli derivati, che hanno invaso rapidamente le borse di tutto il mondo, arrivando, nel 2008, a un valore pari a 12 volte il Pil mondiale. Una bolla di ricchezza fittizia di proporzioni inaudite, che ha finito – come ampiamente prevedibile e previsto – per esplodere, trasformando in spazzatura ciò che fino al giorno prima era considerato dagli speculatori una facile fonte di arricchimento. E non che, per tantissimi di loro, non lo sia stata.
Ora (e solo ora) la patata bollente passa ai governi. Quello statunitense di Bush junior – di cui fino al 2008 si era potuta apprezzare una politica interventista solo in campo militare – decide di spendere 700 miliardi di dollari pubblici per comprare dalle banche nazionali “mutui traballanti e crediti difficilmente liquidabili”, con l'effetto di averle messe in condizione di concederne ulteriori.
Ricetta brillante - evidentemente e alla luce degli effetti sortiti - tanto che l'Europa, o meglio la Bce e l'Ecofin tramite i governi francese e tedesco, chiedono oggi agli Stati dell'Unione di fare altrettanto per uscire dalla crisi che li attanaglia.

Caso a sé fa l'Italia, Paese che condivide con la Grecia il maggior rischio di default fra gli Stati europei.
Qui la crisi non l'hanno determinata soltanto i sub-prime, gli spread o i future vari. Oltre al fallimento di politiche economiche – seppure in salsa maccheronica – neoliberiste, l'Italia paga la manifesta incapacità di un Governo che da 15 anni si dimostra assolutamente inefficace in ogni campo, privo – per disinteresse o inettudine fa poca differenza – di una visione lucida delle problematiche nazionali, e oramai divenuto esso stesso un enorme problema che rischia di trascinare il Paese nel baratro del fallimento.
Tralasciando lo spessore delle singole figure apicali, che pure incide in modo straordinariamente negativo sulla credibilità internazionale dell'Italia, si parla di un apparato completamente strutturato su clientele, ad ogni livello. Inefficienza, spese incontrollate, incarichi inutili strapagati, pesanti infiltrazioni della criminalità organizzata, malcostume e malaffare imperanti.
Anche questo, unitamente alle opere pubbliche i cui costi puntualmente lievitano all'eccesso (inficiandone spesso il completamento), l'assenza di pianificazione negli interventi in economia, di un piano di sviluppo industriale, di qualsivoglia investimento per la valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico, di serie politiche di contrasto all'evasione fiscale, ha determinato il crollo verticale dell'economia italiana e il raggiungimento dell'attuale livello di debito pubblico, negli ultimi anni cresciuto di 700 miliardi di euro, fino a superare i 1800 miliardi (quello della Spagna raggiunge in totale i 700).
Le ricette fin qui adottate (negli sporadici momenti in cui Governo e Parlamento non sono stati impegnati a discutere leggi finalizzate a risolvere i guai giudiziari del premier) sono consistite principalmente in tagli al Welfare, agli Enti Locali, alle dotazioni in uso alle forze di Polizia, in incrementi delle tasse per le fasce più deboli, in un consistente affievolimento dei diritti delle persone (in primis dei lavoratori) e in una serie di condoni sugli abusi edilizi e sui capitali frutto di evasione fiscale o illecitamente trasferiti all'estero.
Risultati: le retribuzioni continuano a diminuire a fronte della crescente inflazione, i consumi di conseguenza, disoccupazione e precariato dilagano, la tensione sociale è alle stelle. E neppure gli indicatori tradizionali - quelli che spesso si sventolano confidando nella scarsa comprensione che si vuole la popolazione abbia della loro reale portata - vale a dire Pil, Pnl, Bilancia commerciale, danno segnali confortanti.
Se a tutto ciò si aggiunge che il pressoché completo controllo dei mezzi di informazione da parte del Primo ministro rende completamente adulterata la percezione che gli italiani hanno della situazione reale, restituendo perciò all'azione di Governo margini di peggioramento più ampi che in altri Paesi, si può facilmente rilevare come l'Italia non sia semplicemente un Paese in crisi come Francia, Spagna o Germania (dove cresce la disoccupazione e rallenta la crescita, ma le retribuzioni restano dignitose, le opere pubbliche si fanno e così i piani di sviluppo industriale), ma più propriamente un Paese in rovina.
Ecco che indignarsi, ribellarsi e opporre all'attuale stato di cose un progetto credibile di alternativa, solidale, rispettoso delle popolazioni e dell'ambiente, delle donne e degli uomini di ogni età, incentrato sul riscatto del lavoro e delle ricchezze da esso prodotte, equivale oggi non solo all'esercizio di un diritto che in molti Paesi, tra cui l'Italia, sta subendo pericolose limitazioni (vedi leggi bavaglio), ma anche e forse più significa ottemperare a un dovere civile di cui ogni persona e gruppo sociale dovrebbe, per quanto può, farsi carico.

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